La parola ai nostri ricercatori: Stefano Laffi

Stefano Laffi

Dal 1990 la Fondazione Roberto Franceschi Onlus premia giovani studiosi per le loro ricerche sulle tematiche relative a sottosviluppo, emarginazione, poverta’, flussi migratori, diritti civili. Con una serie di interviste vi racconteremo, a distanza di anni, di che cosa si occupano i premiati che compongono la rete di ricercatori e professionisti del Network Roberto Franceschi. Il primo a rispondere alle nostre domande e’ Stefano Laffi, socio fondatore dell’Agenzia di ricerca sociale Codici

Caro Stefano, nel 1991 ti sei laureato in Economia politica all’Università Bocconi e, con la tua tesi dal titolo “Premesse, teoriche e metodologiche, ad un osservatorio sulle povertà urbane”, sei stato uno dei primissimi vincitori del premio Roberto Franceschi. Ricordi come sei venuto a conoscenza del bando e se, nell’ambiente della tua Università in quegli anni, ci fosse una memoria condivisa di quella che era stata la storia di Roberto?

Io facevo attività politica, ero quello che si dice uno “studente di sinistra” anche se non sentivo l’urgenza di affiliazioni forti a partiti o schieramenti, solo mi stavano a cuore le disuguaglianze e le ingiustizie, e studiare l’economia per me era uno dei modi più lucidi di guardare il sistema di potere, di capire i meccanismo di sfruttamento e prevaricazione. Quindi, anche per queste frequentazioni e passioni, Roberto Franceschi per me era un nome noto, c’era già un’aula intitolata a lui, ma non direi che ci fosse memoria condivisa, non mi pare ci fosse una sensibilità diffusa, anche perché discipline come sociologia e in generale quelle più “umanistiche” erano davvero minori nel corso di studi. Credo poi di essere stato tra i primi a vincere il premio, né quelli erano tempi di concorsi e “application” per cui venisse naturale tentare o provare, insomma per me fu una vera sorpresa, una bellissima sorpresa.

Che cosa ha significato per te ricevere il premio Roberto Franceschi? Quale influenza ha avuto nelle tue successive scelte di vita e professionali?

Orgoglio, la prima sensazione è stata quella, non era una borsa aziendale o un concorso, avevo vinto un premio intitolato ad un ragazzo che stimavo. Ricordo l’emozione, ed un episodio buffo: quando ricevetti l’assegno tornai a casa tutto felice, ma pedalando – ho sempre girato in bici – caddi ad una curva in piazza Cadorna: la prima cosa che feci fu di controllare la busta, che non si fosse strappata, non le ginocchia ammaccate dal volo… Per me quella era una somma ingente, la mia famiglia non aveva grandi possibilità, quella fu la sicurezza per scommettere davvero nella mia impresa di fare ricerca sociale. Io ho iniziato così, appena laureato e premiato ho scartato le proposte che mi venivano dalle banche e ho mandato una lettera a tutti gli indirizzi che sulle pagine gialle comparivano sotto “centri di ricerca” a Milano, la fiducia per fare una cosa del genere me l’ha data il premio, il primo lavoro l’ho trovato così. La strada della ricerca sociale, che è poi quello che ho intrapreso e che credo sia in qualche modo in linea con l’eredità di Roberto, la devo però a Giuseppe Micheli, il professore di demografia che insegnava allora in Bocconi e oggi alla Bicocca, con cui ho sempre avuto un rapporto discepolo-maestro, quello è stato l’incontro decisivo.

Che posizione ricopri attualmente e di cosa ti occupi?

Tieni conto che con me studiava Stefano Fassina, che è stato viceministro fino a pochi mesi fa, e molti altri della mia leva hanno oggi ruoli di primo piano ai vertici di istituzioni finanziarie, organismi internazionali, imprese, ecc. La mia storia è un’altra, ho sempre fatto ricerca sociale (ma all’inizio in parallelo anche ricerca nel campo delle nuove tecnologie) applicata, ovvero ho escluso la carriera universitaria e la carriera tout court per affiancare servizi, cooperative, enti locali, ecc. per fare progetti, migliorare interventi, capire come affrontare il mutamento sociale in corso. Questi sono stati gli anni dei grandi flussi migratori, delle tensioni nei quartieri, dell’esclusione dei giovani dalla cittadinanza attiva, dell’impoverimento diffuso, della crisi di coppia nelle famiglie…. Poi, ad un certo punto, come fosse la biologia a suggerirmelo, prima dei 40 anni ho sentito l’urgenza di generare, riprodurmi: ho fatto due figli con mia moglie e ho fondato la cooperativa di ricerca sociale Codici, a Milano, che l’anno prossimo compie 10 anni, una piccola impresa in cui lavorano circa una decina di persone e vi collaborano molte altre. Noi oggi ci occupiamo di intervento sociale, di dispersione scolastica, di coesione sociale, di cittadinanza attiva di bambini e giovani, ecc. con progetti a forte carattere partecipativo, ovvero mettendo le competenze di ricerca al servizio dell’autorappresentazione dei soggetti sociali. Questo significa che se vent’anni fa elaboravo soprattutto dati di grandi survey, oggi all’analisi dei dati affianco competenze e pratiche molto diverse, costruite sul campo, più vicine alla sintonia delle persone comuni. Faccio solo un esempio: un quartiere legato ad una fabbrica molto grande, la Snia di Cesano Maderno, e oggi chiusa, gli operai che vi abitavano se ne vanno, arrivano migranti di ogni paese attratti dal basso costo degli alloggi, si genera una forte concentrazione fra nazionalità senza una lingua comune e una storia comune, che non fanno lo stesso lavoro, il villaggio industriale rischia oggi di diventare il ghetto per il resto del paese. Che fare? Con un finanziamento sull’integrazione dei migranti costruiamo una partnership col Comune, la scuola e chi si occupa di aiuto sociale su quel territorio, raccogliamo le storie di vita degli operai e dei nuovi migranti, poi entriamo in fabbrica, troviamo in un magazzino abbandonato i prototipi dei vestiti che si sperimentavano con le fibre create da cellulosa o altro, li sistemiamo, cerchiamo fra le ragazze straniere e italiane di quel quartiere chi voglia indossarle e organizziamo una sfilata nel centro della città il giorno della festa della donna, mentre vanno in onda le interviste alle operaie di un tempo e le foto degli archivi salvate dal macero. Sembra la cosa più distante dalla ricerca, eppure non ho mai visto il dialogo fra generazioni distanti, fra epoche diverse, fra nazionalità differenti generare tanta bellezza e tanta felicità.

Come sai, la nostra Fondazione è attiva nel settore della ricerca scientifica di particolare interesse sociale, principalmente nell’ambito della prevenzione, diagnosi e cura di patologie sociali e forme di emarginazione sociale. A tuo parere, quali problematiche, tra i fattori di rischio di esclusione sociale, sono meritevoli di studio e di riflessione in modo più approfondito di quanto avvenga oggi nel mondo della ricerca e delle istituzioni?

Avendo scelto di fare ricerca molto “situata”, ovvero in contesti ben definiti perché credo sia l’unica ricerca in grado di generare cambiamento – non si risolve il problema della scuola o del lavoro in generale, a meno di essere un premier, forse – non ho una scala di osservazione in grado di offrire un’agenda di priorità per il Paese, come si dice, né tanto meno di farlo rispetto al quadro della ricerca scientifica. Posso dire quel che vedo, quel che incontro. Ci sono situazioni di esclusione completa, di cui non hai alcuna traccia finché non succede qualcosa di grave, e di cui dubito si occupi la “ricerca scientifica” perché fuori dal radar dei grandi dataset, dei sondaggi e delle survey: penso a chi soffre di malattia mentale, a carte madri vedove allo stremo delle forze che assistono figli disabili divenuti grandi, alla solitudine assoluta di certi anziani soli, in contesti urbani che fanno sempre più fatica a creare relazioni di vicinato, o di normale “monitoraggio” che conoscenti e negozianti hanno sempre fatto nel rito dell’incontro quotidiano. E poi mi verrebbe da segnalare qualcosa che può sembrare strano, l’esclusione dell’infanzia: i bambini entrano nel racconto giornalistico solo come vittime, e nel racconto di ricerca quando fanno parte di famiglie povere, di coppie separate, mentre la pubblicità ne celebra (e ne usa) la bellezza. Eppure la convenzione di New York aveva stabilito già 25 anni fa che la loro voce andrebbe sempre presa in considerazione per ogni decisione che li riguarda, cosa che viene sistematicamente violata. Quale scuola decide insieme ai bambini il proprio regolamento, quale pezzo di città è mai stato disegnato con loro, quale politica sociale li ha mai consultati? Solo il marketing li pedina stretti cercando di dare forma di merce ai loro desideri, mentre io credo che andrebbe ridefinito radicalmente un sistema sociale che dialoghi costantemente con loro, perché hanno una radicalità e una saggezza preziosissime.

Visti i dati allarmanti sulla disoccupazione giovanile e sulla protratta precarietà lavorativa di quanti hanno un impiego, pensi sia corretto parlare dei giovani come di una fascia di popolazione a rischio di esclusione sociale? Dopotutto il diritto al lavoro è il primo diritto sociale, presupposto per l’esercizio di molti altri diritti di libertà. Dal tuo punto di vista, quali strumenti, prima di tutto culturali, potrebbero essere impiegati per aiutare i giovani a recuperare il diritto a una piena cittadinanza?

Ho appena pubblicato un libro che si intitola “La congiura contro i giovani”, esattamente su questo tema: è così, sin dall’infanzia l’esclusione di chi ha meno di 30 anni è pervicacemente perseguita con infiniti dispositivi sociali, analiticamente descritti nel libro. Non c’è un rischio di esclusione, è un dato di fatto, bambini, ragazzi e giovani sono irrilevanti, non servono al funzionamento del sistema sociale se non come utenti di servizi e consumatori, a loro non è stata data responsabilità e potere di decidere nulla, di progettare nulla, di creare alcunché. Solo la musica, lo sport e alcune forme espressive li vedono protagonisti, ma spesso usati da quei sistemi stessi per generare fatturato quando hanno successo.
La mia tesi è questa. Ora il problema non è dei giovani, ma degli adulti, fra un diciottenne che non trova lavoro e un cinquantenne che lo perde ad essere in crisi è il secondo, che per 30 anni ha fatto lo stesso mestiere – mestiere che magari non esiste più o non si fa più così – mentre il ragazzo è cresciuto nella precarietà, ci è nato dentro, e ha strategie cognitive maturate in questo contesto, interessantissime come modello di comportamento in situazione di incertezza. Il fatto è che sono in crisi le principali istituzioni – fanno fatica il parlamento, la famiglia, la chiesa, l’azienda, ecc. – e siamo ad un punto di forte discontinuità, stiamo cambiando il modo di agire nella nostra quotidianità (scrivere, studiare, apprendere, suonare, cercare amici, fare diagnosi mediche, costruire casi, ecc. sono infinte le pratiche quotidiane che oggi si fanno in modo diverso rispetto a solo 10 anni fa) e questo ribalta il sistema dei saperi, su molte cose e soprattutto sull’uso delle tecnologie i veri artigiani sono i giovani, anzi i ragazzi e i bambini. Ebbene, la proposta è semplice, smettiamola di agire una gerarchia di età basata su una presupposta sapienza o superiorità morale che oggi non sempre o non automaticamente risultano provate, creiamo contesti, organizzazioni, scuole o aziende in cui si agisce insieme, si lavora uno accanto all’altro, si costruisce mettendo in comune abilità e competenze – che siano libri di testo, regolamenti scolastici, orti e giardini, oggetti di uso comune, ecc. – con una circolarità dei saperi tutta orizzontale, con modelli organizzativi dove la presa di decisione è distribuita fra tutte le competenze e le età. In fondo molte associazioni di volontariato funzionano già così e le aziende stesse stanno agendo il reverse mentoring, i giovani che entrano insegnano a chi è dentro le potenzialità dei nuovi saperi.

 

Stefano Laffi  – Esperimenti di cittadinanza nel contesto locale: il caso di Milano
Convegno del Network Roberto Franceschi
“Flussi migratori e crisi economica: questioni globali e riflessi locali”
(Università Bocconi, 17/12/2010)

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