Per un’etica della responsabilità: una ricerca intersezionale sulle donne recluse in Italia

Con questo progetto che prevede una raccolta dati in quindici carceri italiane Giulia Di Donato, laureanda magistrale in Scienze filosofiche all’Università degli Studi di Milano, ha vinto il bando 2023 dei Fondi di ricerca Roberto Franceschi

Il progetto di cui parla questo articolo è stato finanziato con i fondi di ricerca Roberto Franceschi per laureandi magistrali e dottorandi.
Per continuare a proporre il bando, che in 12 edizioni ha finanziato 24 progetti di ricerca in Italia e all’estero, è indispensabile il vostro sostegno: cliccando qui potete scoprire come aiutarci a sostenere giovani ricercatrici e ricercatori.
Abstract

Il progetto proposto muove da un sentire soggettivo in relazione alle forme di esclusione e desoggettivazione che le donne si trovano a dover resistere nel quotidiano. L’intento della ricerca non è esprimere un disagio attraverso una lotta individuale, bensì dar voce alle donne che vengono sistematicamente discriminate per uno o più fattori contemporaneamente in un particolare contesto che sarà oggetto di indagine: il penitenziario. A partire dalla lettura dei concetti filosofici di soggetto insostituibile e responsabilità verso le ingiustizie sociali, la ricerca si inserisce nell’ottica di indagare le carceri femminili italiane con l’obiettivo di rendere evidenti alla comunità i processi patologici lì innescati. L’indagine si muoverà sia su un piano teorico, a partire dai lavori di studiosi e studiose che hanno analizzato le origini della duplice e contemporanea oppressione nei termini di donne e detenute, analizzando i fattori che ne sono all’origine utilizzando un approccio intersezionale, ma anche e soprattutto su un piano effettivo, proponendo una raccolta dati a partire dall’esperienza nelle carceri e nelle sezioni che ospitano donne recluse – ai fini della ricerca sono stati selezionati quindici istituti distribuiti in modo omogeneo sul territorio italiano. L’importanza di tale raccolta è avvalorata dalla volontà di riportare le voci delle persone ristrette, permettendo così alla ricerca di parlare di loro e non per loro.

Osservate e studiate da molteplici prospettive, le carceri iniziano a farsi spazio nel dibattito pubblico e accademico già dal XVII secolo. Nello scenario italiano diversi sono stati gli aspetti dell’istituzione carceraria indagati da ricercatori e accademici: la funzionalità del percorso di detenzione, gli spazi della detenzione, l’accesso alle cure, la dimensione affettiva e il rapporto con la criminalità. Un tema molto meno indagato e che perciò presenta significative lacune è quello della detenzione delle donne: vista la difficoltà d’accesso in questi luoghi, essi si conformano come teatri d’eccellenza per la proliferazione e la legittimazione delle dinamiche che si intersecano nella patologia sociale dell’annullamento delle donne. Il progetto di ricerca si inserisce in uno spazio di denuncia per carenza d’attenzione nei confronti della detenzione femminile e si propone di indagare realtà antitetiche tra loro, creando un dataset originale sulle condizioni delle donne recluse in Italia.
Le motivazioni che dipingono la detenzione delle donne come poco conosciuta sono numerose, a partire da una prima – forse la più significativa – che riguarda il numero esiguo di donne presenti nelle carceri: attualmente solo il 4,2% della popolazione carceraria italiana occupa gli spazi per la detenzione femminile, per un totale di circa duemilaquattrocento persone lo scorso anno. Questo dato denota non solo la scarsità di attenzione verso la popolazione detenuta nelle sezioni femminili, ma anche un difficile accesso a tutte le forme di attività e socialità delle quali invece la popolazione detenuta maschile riesce tendenzialmente a usufruire poiché numericamente maggiore. Un secondo aspetto concerne la concentrazione da parte della letteratura esistente sulla sfera dell’emotività femminile: essendo considerate come soggetto debole, anche nell’ambito carcerario non mancano retoriche e narrazioni legate a questioni puntuali come l’eccessiva infantilizzazione del carcere, l’abbandono della “donna deviante e inadatta” da parte delle famiglie, l’annebbiamento della figura individuale sostituita da quella della donna nel ruolo di genitorialità e l’incontrollabile uso di psicofarmaci per tenere a bada il dolore di una forte separazione con l’esterno. Un terzo e ultimo aspetto concerne la tipologia di reati per i quali, preventivamente, scontano la pena le donne detenute, che sono principalmente riconducibili ad azioni contro il patrimonio (es. furti, truffa) e dai quali viene ricavata una narrazione mediatica molto meno rilevante rispetto a reati di tipo associativo, dei quali le sezioni maschili brulicano.
Un secondo tema raramente indagato è la detenzione di persone transgender, categoria ulteriormente marginalizzata dal sistema penitenziario, che ricorre solitamente all’uso di sezioni dedicate e separate dove i soggetti trovano frequenti limitazioni nell’accesso agli spazi, alle cure e alla rappresentazione di sé. Prendendo in considerazione tutti gli aspetti elencati, non è difficile capire quante difficoltà possano incontrare nel quotidiano le persone recluse in queste sezioni minori.

Considerando gli scopi primari di ricerca, la fase finale del progetto è dedicata alla lettura e all’interpretazione dei dati raccolti in relazione alle ipotesi iniziali di patologia sociale sistemica di carattere escludente nei confronti delle donne. Questa è volta a evidenziare e comprendere come le suddette dinamiche di esclusione, nello specifico selezionando minoranze all’interno della categoria stessa di donna quale straniera, disabile, minore, transgender, analizzate all’interno del contesto carcerario riescano a riprodurre in modo importante l’esclusione di suddette minoranze nella società considerata in senso ampio, proliferando così dinamiche di esclusione.
Infine, considerando gli scopi primari della ricerca e a partire dal riconoscimento dei concetti di “fardello femminile” e soggetto insostituibile, grazie agli esiti dell’indagine si vuole superare il limite di non-delegabilità della responsabilità sociale e proporre una via alternativa a quella tracciata dalla filosofia presa inizialmente in considerazione: ci si auspica di coinvolgere la collettività nella condivisione del fardello, delegando la responsabilità ad una platea più ampia, confidando dunque ad un vero e profondo annullamento della patologia sociale indagata. Il progetto infatti appare necessario per restituire alla comunità una narrazione puntuale delle dinamiche che si instaurano nei luoghi di detenzione in Italia, ma anche per dare avvio ad un dibattito critico che porti l’attenzione sulla tematica. Essendo un progetto propulsore, ci si offre di utilizzare i dati raccolti per riconsegnare uno sguardo sulle dinamiche che si riproducono nei termini dell’esclusione e dell’annullamento femminile e, soprattutto, mettere a disposizione i dati raccolti affinché le persone interessate possano avere riferimenti su un lavoro etnografico precedente.

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