“Il corteo funebre in un assoluto silenzio” di Massimo Nava
Lo hanno seguito a migliaia, in silenzio; a migliaia sono arrivati dalle scuole, dalle fabbriche, dalle città dell’hinterland per salutarlo un’ultima volta.
Con i loro giacconi, con i loro blue-jeans, le rose e le bandiere rosse strette nelle mani, sono sfilati davanti alla bara adagiata nell’ateneo. Una breve occhiata, una lacrima che si asciuga, una firma di solidarietà. E poi il lungo e silenzioso cammino verso l’Università Statale. Così è stata vissuta l’ultima giornata di Roberto Franceschi. Un silenzio assoluto, quasi sgomento, ha seguito l’immenso corteo, in una Milano quasi personificata nella sua solitudine e nella sua tristezza.
Le saracinesche abbassate, gli sguardi muti dei passanti e dei negozianti al passaggio del feretro, la gente attonita alle finestre delle case. Qualcuno ha fatto il segno della croce, da un balcone è uscito un tricolore listato a lutto, durante il tragitto dalla folla si sono levati più volte i pugni chiusi.
La bara vegliata tutta la notte dagli studenti, dai parenti dagli amici, è stata portata fuori a braccia da sei giovani, passando fra due file di bandiere. Issato sul carro, il feretro è stato seguito dai genitori, dalla sorella, dagli amici più intimi. Poi le corone e le file di bandiere rosse listate a lutto. Il corteo ha quindi mosso verso via Sarfatti e corso Italia: alla testa il sindaco Aniasi, rappresentanti delle segreterie del PCI e del PSI e i dirigenti del Movimento Studentesco. Quindi a gruppi, tenendosi per mano, migliaia di giovani, di cittadini, d’insegnanti, di operai. In fondo al corteo, con un’altra fila di bandiere, gli esponenti delle organizzazioni sindacali, dei consigli di fabbrica e di numerose sezioni di partito e associazioni democratiche.
Mentre il corteo sfilava per le vie del centro cittadino, un gruppo di studenti della Bocconi ha pregato in S. Ferdinando, la chiesa dell’ateneo, per l’anima del povero studente ucciso.
In corso Italia la folla immensa, stretta fra le case, ha chiuso ogni spazio, occupato ogni spiraglio. È stato uno dei momenti più toccanti: una distesa di volti tesi, di labbra serrate come per ricacciare un grido. Solo i drappi rossi, i cappotti e i pantaloni multicolori, indossati come in una qualsiasi mattinata di scuola, i libri sottobraccio, hanno reso meno cupa, meno indefinita l’immagine ovunque avvertibile delle ferite aperte dalla violenza.
Anche la città, la gente nelle case, gli automobilisti bloccati nelle macchine, i passanti stretti sui marciapiedi hanno capito il senso di una cerimonia funebre così diversa, così venata di sfumature politiche, ma sentita dai partecipanti.
Nessuno ha commentato, nessuno ha parlato, nessuno si è intromesso nella commozione di migliaia di giovani.
Chi lo ha fatto, come il gruppetto delle ragazze della Standa di via Beatrice d’Este, entrate un attimo nel corteo, è stato spinto da solidarietà, coinvolto nella commozione. Ovunque il rispetto.
Lo stesso rispetto che i familiari, i parenti e gli amici di Roberto hanno avuto per le sue idee, per la sua testimonianza politica.
In piazza S. Stefano, a pochi passi dall’Università Statale, il feretro si è fermato, i genitori di Roberto hanno ascoltato, apparentemente impassibili, assieme alla folla, le poche parole di uno studente che ha ricordato l’impegno politico del giovane, “un esempio per tutti coloro che lottano per la democrazia e per il socialismo”. Intanto le corone del presidente della Camera, Pertini, di numerosi gruppi della sinistra, dei partiti, di alcuni licei ed istituti milanesi, di circoli e di associazioni di genitori sono state adagiate nella piazza. Poi gli studenti hanno intonato sommessamente l’Internazionale, salutando con il pugno chiuso il passaggio della bara.
Il funerale, a questo punto, è proseguito in forma strettamente privata. La famiglia di Roberto Franceschi e i parenti hanno accompagnato la salma al cimitero di Dorga, in provincia di Bergamo, dove il giovane trascorreva le sue vacanze estive. Le uniche persone che durante la lunga agonia avevano inutilmente sperato in un miracolo hanno assistito alla tumulazione, avvenuta nel primo pomeriggio.
In via Festa del Perdono le ore si sono fermate. Queste immagini dolenti si sono come fissate nel tempo. Arrotolate le bandiere, salutati gli amici, la gente è sgattaiolata via in fretta, quasi con la voglia della propria casa, di un po’ di pace. Di quella pace che a Milano sembra bandita,scacciata come una carestia, vittima troppo preziosa dei conflitti di una società in crisi.
Oggi il nome di Roberto Franceschi, a prescindere dalla sua milizia politica, è nella coscienza di tutti. La sua morte apre interrogativi profondi, che trapassano la contingenza dei perché del momento, delle prese di posizione, delle indagini.
Oggi il nome di Roberto Franceschi è in un’altra pagina della lunga tragedia milanese, così come ieri mattina era nei pensieri di una generazione ferita.
l’Avvenire, 4 febbraio 1973